

Il Castellaccio di Monteroni
All’altezza del 35° km della Via Aurelia c’è una diramazione che porta all’antico tracciato della statale: lì, nella frazione di Monteroni, tra alberi di ulivi e campi coltivati, ultimo lembo meridionale del territorio di Ladispoli, sorge il Castellaccio dei Monteroni.
È un casale fortificato a pianta rettangolare e si erge su due livelli, munito di quattro torri angolari merlate che gli conferiscono l’aspetto, e da qui il nome, di un piccolo castello. Tale edificio, entrato di recente a far parte del patrimonio comunale di Ladispoli, costituisce una particolarità per stato di conservazione, dimensioni e struttura tra tutte le numerose costruzioni che nel corso dei secoli si sono realizzate lungo il percorso della Via Aurelia.
Situato nelle vicinanze del sito di Alsium e della necropoli etrusca di Monteroni, da cui l’edificio prenderà il nome, a ridosso della attuale Via dell’Acquedotto di Statua, la sua edificazione iniziò nel XIV secolo circa su strutture romane preesistenti. Lontano dai centri abitati, a metà strada tra Civitavecchia e Roma, restò per lungo tempo la più importante stazione di sosta di quel percorso.

Il più antico documento in cui si cita il Castellaccio di Monteroni
è un inventario del 1588 compilato da Vincenzo Renzi sui casali di Roma. Da questo documento risaliamo al suo stato di casale con fondo agricolo annesso di 800 ettari, proprietario il Marchese di Riano, Paolo Emilio Cesi.
Nel 1566 nella lista delle Taxae Viarium, riferita ai casali delle Vie Aurelia e Cornelia, il Castello non compare: è probabile perciò che esso sia stato costruito tra il 1566 e il 1588. Da una breve storia del territorio di Cerveteri e Ceri redatta nel 1659 dal Commissario Generale della Reverenda Camera Apostolica, De Rubeis, risulta che il Castello dei Monteroni era legato al feudo di Ceri.
A cavallo tra il ‘500 e il ‘600, il Castello di Monteroni era sicuramente un casale di posta delle carrozze, dove viaggiatori e pellegrini potevano sostare: nel 1624 è invece il primo documento che ne riporta una descrizione per immagini del Castello.
Si tratta di una Carta di un autore anonimo in cui sono evidenziate in forma schematica le costruzioni più significative, i borghi, le torri e i corsi d’acqua presenti lungo la costa a nord di Roma.
In questa pianta, tra i fossi Sanguinara e Arrone, è raffigurato il casale di Monteroni con la dicitura Monteroni Host., circondato da grandi boschi e in forme molto simili all’attuale edificio; inoltre la Carta presenta la didascalia del Duca di Ceri, a differenza delle proprietà di Palo, Cerveteri e Torre Flavia, attribuite al Duca di Bracciano, quindi agli Orsini.

Da un rilievo tecnico del 1660, raccolto dalla Presidenza delle Strade per la manutenzione delle strade consolari,
risulta che il Castello di Monteroni era strutturato in un corpo centrale con i quattro torrioni angolari e, sempre da questo documento, si nota il sistema viario a tridente che, partendo dal Castello di Palo, puntava verso Monteroni da un lato, verso Civitavecchia dall’altro e verso Ceri a Bracciano nel mezzo: un impianto stradale che compare qui per la prima volta e si troverà sempre nella la cartografia di questo territorio fino a metà Ottocento, con la presenza peraltro tipica delle alberature stradali, tuttora in parte esistenti.
Tra Seicento e Settecento, periodo caratterizzato dallo spopolamento della campagna infestata dalla malaria e dai briganti, il casale di Monteroni rimase uno dei pochi insediamenti fissi ed infatti nella Tavola Topografica ad ampia scala del territorio o Distretto di Roma di Innocenzo Mattei, al toponimo Monteroni è attribuita ancora la funzione di Posta.
Il 29 marzo del 1678 il ducato di Ceri, comprendente l’intera tenuta, fu acquistato dal nobile casato degli Odescalchi, che in seguito acquistò anche le importanti proprietà della famiglia Orsini.
Tornando al Castellaccio, sono da segnalare due importanti documenti, conservati presso l’archivio Odescalchi, che forniscono una vera fotografia del monumento come era sul finire del XVII secolo.
Il primo è un album di grandi dimensioni delle Misure e piante, con prospetti e piante a colori, consistente di 70 fogli in pergamena numerati, con le misurazioni e le carte di campi e terreni, le descrizioni e le piante degli edifici più importanti interni allo Stato di Ceri: un vero e proprio catalogo generale dei beni e delle terre del ducato, commissionato dal principe Odescalchi all’agrimensore Simone Rotondi e al cartografo Giovan Battista Cingolani nel 1682.
<< Cartina del ’700 raffigurante il territorio della Tenuta di Monteroni di sotto e il Castellaccio dei Monteroni

Tale album contiene quello che si può considerare il primo rilievo scientifico del monumento:
vi è rappresentata la pianta del piano terra e un alzato prospettico e l’aspetto generale che se ne deduce è piuttosto simile all’attuale, con alcune differenze. Il fronte presentava già un portale bugnato ma privo ancora dello stemma nobiliare al di sopra; le finestre erano molte di meno; infine le torri erano tutte rivestite ad intonaco. Il piano terra presentava un unico ingresso dal quale si diramavano le due grandi ali del corpo centrale e frontalmente la scala che accedeva al secondo piano; il grande annesso posteriore ancora non esisteva e le stanze delle torri erano accessibili solo dall’interno. Adiacente al Castello sorgeva un secondo edificio che serviva come stalla, fienile e altri usi dell’oste.
Il secondo documento è un istrumento, un contratto di affitto risalente al 1683 dell’Albergo e Ostaria di Montarone per un valore di 200 scudi a Giovanni Pizzalio e Carlo Antonio de Angelis. Da tale contratto si apprende il motivo per cui venne costruito un edificio esterno all’osteria: una clausola infatti vietava agli affittuari di mettere il fieno e la paglia dentro l’osteria per evitare gli incendi.
In questi anni si svolsero lavori edilizi importanti sull’edificio.
La Nota dei pagamenti fatti a muratori, ferrari, falegnami, dall’anno 1681 fino all’anno 1689 riporta tutti i pagamenti effettuati per la realizzazione di un fontanile, al di sotto del torrione di sud-ovest e probabilmente dell’annesso del lato lungo posteriore, come sembra confermato dalla pianta dell’Agro Romano del 1704 di Giovan Battista Cingolani. << Particolare della cartina raffigurante il territorio della Tenuta Monteroni di sotto dove si evidenzia la presenza del Castellaccio dei Monteroni lungo l’antica Via Aurelia
Nei primi anni del ‘700 l’osteria subì diverse ristrutturazioni, tra le quali notevole quella nel 1708 in occasione della visita di Papa Albani, Clemente XI, la realizzazione dello stemma di famiglia e di una piccola cappella dedicata alla Madonna SS.ma della Consolazione nella torre di sud-est, oltre a lavori di abbellimento: nuove finestre, nuovi camini, ritinteggiatura degli interni con affreschi. Durante tutto il Settecento l’osteria di Monteroni rimase in funzione sotto il controllo degli Odescalchi.

Nel corso dell’Ottocento,
per motivi non del tutto chiari, ebbe luogo un progressivo decadimento dell’edificio: tuttavia ancora nel 1820 il Catasto Gregoriano registrava per Monteroni non solo l’osteria, ma anche l’oratorio e l’edificio di posta come funzionanti.
Inoltre vi si istituì una sorta di gendarmeria di confine tra gli stati di Roma e Civitavecchia e, proprio in questo contesto, ebbe luogo l’episodio dell’arresto descritto da Giuseppe Gioacchino Belli nel sonetto Er Passaporto (1833).
Ulteriori informazioni sullo stato dell’edificio sono contenute in due documenti, del 1837 e del 1851, che descrivono tutti gli ambienti, gli infissi e gli arredi in una sorta di inventario ai fini della consegna del casale a nuovi affittuari.
Nel 1857, con il completamento della deviazione della Via Aurelia verso Palo, eseguita per raggiungere più facilmente la settecentesca Posta Vecchia di proprietà dagli Odescalchi, il casale di Monteroni perse il ruolo che aveva ricoperto negli ultimi due secoli e finì per assumere esclusivamente funzioni agricole, utilizzato da mezzadri e affittuari come residenza e locale di servizio:
<< Particolare di una cartina del 1620 raffigurante il territorio, con le sue vie di collegamento, tra Palo e il Castellaccio dei Monteroni
ormai di dimensioni eccessive per gli scopi necessari, si preferì suddividerlo internamente in più vani per rendere indipendenti le varie parti.
Fu allora che nella cartografia ufficiale assunse il toponimo di Castellaccio, probabilmente per distinguerlo dal Castello più “bello” e nobiliare, quello degli Orsini-Odescalchi, che allora era visibile sulla linea della costa da chi percorreva l’Aurelia.

Nello stesso anno la costruzione della linea ferroviaria
apportò grandi mutamenti al territorio circostante, tagliando il sistema viario a tridente facente capo al Castello di Palo. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu usato come rifugio per alcuni degli sfollati di Ladispoli e dopo la riforma agraria e l’esproprio dei terreni agricoli passò all’Ente Maremma, che lo utilizzò per i suoi mezzadri, incentivando le attività agricole.
Nel 2000, in occasione del Giubileo, è stato sottoposto a un restauro sotto la supervisione della Provincia di Roma e della Sovrintendenza ai Beni Architettonici del Lazio durante il quale si è riportato alla luce l’antico basolato romano. Ulteriori scavi nel perimetro adiacente il Castellaccio e il vicino edificio adibito a stalla e scuderie, hanno portato alla luce nel 2017 nuovi tratti dell’antico tracciato dell’Aurelia e, nel lato nord, importanti monumenti funerari di epoca romana e numerosissime tombe a cappuccina dello stesso periodo.
<< Una rara foto degli inizi del ‘900 della zona di Statua sull’Aurelia. In primo piano i resti di una struttura romana e, in alto, due torri. Erano quello che rimaneva di un casale fortificato simile, ma più piccolo, al Castellaccio dei Monteroni
Molte sono le narrazioni e le testimonianze dei molti personaggi che hanno soggiornato al Castellaccio nel corso dei secoli, in particolare durante l’epoca del Grand Tour nel Settecento e nell’Ottocento. Fra di essi ricordiamo l’abate dominicano Padre Labat, che ha dedicato molte pagine del suo diario di viaggio alla sua permanenza nel Castellaccio dei Monteroni; San Paolo della Croce, fondatore dei Padri Passionisti a metà Settecento; Caroline Hamilton Gray con il suo Viaggio tra i sepolcri dell’Etruria del 1840; il viaggiatore e archeologo inglese George Dennis, autore di scavi in questa zona tra il 1842 e il 1847; l’architetto Luigi Canina e lo storico Antonio Nibby.
Il Castellaccio dei Monteroni è stato utilizzato come set cinematografico
la prima volta da Alessandro Blasetti nel 1951 per l’episodio del Tamburino Sardo nel film Altri tempi: nel 1959 fu Monicelli ad utilizzarlo per tutta la parte finale de La Grande Guerra. I due soldati italiani perennemente imboscati (Gasmann e Sordi), prima si rifugiano nel vicino edificio delle scuderie per la notte e poi, presi prigionieri degli Austriaci, vengono interrogati nel salone del grande camino, locali usati realmente dai contadini che, in attesa delle case dell’Ente Maremma, abitavano già da molto tempo nel Castellaccio. La scelta di questa ambientazione era stata suggerita a Monicelli da Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia di questo film, che proprio nella pianura vicino al Castellaccio dei Monteroni aveva iniziato la sua carriera con Roberto Rossellini nel L’Uomo dalla Croce.
Tratto dal libro “Ladispoli – Un lungo viaggio nel tempo” – Volume 2 – Identità e Cultura – Edizioni CISU – Crescenzo Paliotta

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